Osservando alcune raffigurazioni, anche a carattere religioso, si nota talvolta una palese abrasione volontaria di volti o soprattutto degli occhi e ciò si verifica indifferentemente sia su superfici affrescate, sia su opere su tavola o su tela. Si tratta di iconoclastia parziale, fenomeno che scaturisce dalla convinzione molto antica che un’immagine possa avere una propria vitalità, e che essa risieda e si manifesti proprio attraverso occhi e bocca, gli organi di senso percepiti quali principali vie di ricezione ed interazione tra mondo esterno ed interiorità dell’individuo. In antico i riti di consacrazione delle effigi, infatti, spesso culminavano nella cosiddetta “apertura della bocca e degli occhi” vale a dire con la realizzazione di tali dettagli somatici, non a caso gli ultimi ad essere portati a termine[1]. E’ interessante notare che ciò che coincide con l’idea di vita coincide anche con l’idea di divinizzazione dell’immagine.
In questo processo un rilievo particolare veniva dato agli occhi. Prima che l’opera fosse dotata di sguardo era, infatti, considerata solo per il materiale di cui era composta, solamente dopo veniva invece ritenuta una divinità. Non è un caso, poiché da sempre gli occhi sono ritenuti la parte del volto che veicola maggiormente le emozioni, lo testimonia la nota affermazione “gli occhi sono lo specchio dell’anima”. In particolare nel mondo cristiano, soprattutto delle origini, è lo spirito a dover prevalere sulla materia e, a livello figurativo, tale concetto viene affidato alla realizzazione degli occhi che, nell’arte paleocristiana o alto medievale, spesso hanno proporzioni maggiori rispetto agli altri tratti del viso.
Ma da sempre l’immagine, oltre che piacere, ammirazione, venerazione crea turbamento, paure, proprio in ragione della sua possibile vitalità, se ne hanno testimonianze sia in epoca antica e classica che nel mondo cristiano[2]. Per rimanere in quest’ultimo ambito, si pensi come, nelle agiografie dei alcuni santi, fra i quali, ad esempio, Tommaso e Bartolomeo, i demoni da sconfiggere risiedessero soprattutto nelle statue, certo identificate come simboli della paganità, la quale, però, in modo estremamente interessante si traduce in un’ “entità” che anima l’effige; ed è proprio questa a dover essere sconfitta, solo dopo l’idolo cade in pezzi[3]. Di contro, nei secoli successivi, molte immagini saranno ritenute miracolose e come tali saranno oggetto di venerazione. Tutto ciò riconduce, però, sempre al ruolo dell’immagine, in ogni caso tramite con il soprannaturale, il divino, sia esso accettato, esaltato o negato.
Considerando quanto prima ricordato, ovvero l’aspetto focale dello sguardo, ne consegue che privarne un’immagine equivale a privarla di vitalità, di capacità di agire; se ad essa si dà un valore sacrale, la si intende in relazione con una divinità, cancellarne la vista significa rendere incapace la divinità o l’entità. Ma privare dello sguardo, cioè della affermazione della sua veridicità, un’immagine legata ad un culto, equivale a dissacrarlo, è un gesto di scherno, di esibito vandalismo, non disgiunto, però, dalla strisciante paura che in quella effige possa veramente celarsi la forza divina.
La Diocesi di Albenga- Imperia non è esente da tale fenomeno. Ad esempio lo si ritrova a Pieve di Teco, nella chiesa della Madonna della Ripa, nell’affresco, oggi solo in parte sopravvissuto, presente sulla parete destra del presbiterio e realizzato da Pietro Guido da Ranzo, fra il 1535 e il 1537,[4]. Qui il frescante aveva raffigurato un sequenza di santi, intervallati da cornici, di cui attualmente restano San Rocco e Sant’Orsola tra i quali campeggia l’effige della Sant’Anna Metterza, in cui la madre della Vergine tiene in braccio Maria la quale a sua volta sorregge il Bambino (fig. 1). Non è un caso che le uniche figure ad essere state volontariamente rovinate siano proprio queste tre, percepite dagli ignoti vandali come nucleo fondante della fede cristiana. Le due figure femminili presentano l’abrasione dei volti e delle mani, mentre sul Bambino l’asportazione della pellicola pittorica interessa tutto il corpo, tranne i piedini, insolitamente calzati. Non si conosce il momento in cui è stato portato lo sfregio, che potrebbe risalire agli acquartieramenti di truppe in epoca rivoluzionario-napoleonica, ma anche a tempi più recenti, durante i quali la struttura, prima di divenire la sede pievese del Museo Diocesano, è stata destinata agli usi più diversi.
Simile situazione appare a Borgomaro. Nella chiesa di SS. Nazario e Celso, in capo alla navata sinistra, sopravvive una parte degli affreschi che ornavano l’edificio nella sua ricostruzione quattrocentesca. Nell’abside, al centro di una teoria di Apostoli, purtroppo andata parzialmente perduta, compare la Vergine in trono ritratta mentre allatta il Bambino[5]. Tutti i personaggi presentano cadute di colore, abrasioni di tipo diverso, forse ridipinture, ma se si presta particolare attenzione, si nota come solo il volto della Vergine, soprattutto nella zona degli occhi, e in particolare proprio gli occhi di Gesù presentino una decisa abrasione della pellicola pittorica, tanto che si rivela l’intonaco sottostante. Similmente è scomparso il seno che Maria porge al Figlio (fig. 2). Anche in questo caso, in spregio alla divinità, la si priva dello sguardo. Come già detto per Pieve di Teco, date le complesse vicende del luogo di culto, per molto tempo in stato di abbandono, prima di divenire sede di una comunità monastica benedettina, non si può determinare il momento in cui è avvenuto l’atto vandalico.
Di segno diverso è invece l’iconoclastia, sempre rivolta verso gli occhi, che si può osservare nella predella del polittico dell’Immacolata Concezione e Santi, opera di Raffaello e Giulio De Rossi risalente al 1560 ed oggi posizionato alle spalle dell’altar maggiore della chiesa di Sant’Antonio Abate a Tovo Faraldi (fig. 3)[6]. Qui, nello scomparto di sinistra, dedicato a Sant’Antonio Abate, ad essere stati privati dello sguardo sono i demoni che tentano il Santo eremita. In questo caso chi ha perforato con chiodi, punzoni i loro volti voleva, con sorta di esorcismo primitivo, colpirne, annullarne la forza malefica, ritenuta in qualche modo capace di uscire dal polittico e di scagliarsi anche contro i fedeli, come se in qualche modo l’immagine e l’entità fossero in diretta relazione (fig. 4)[7].
Nei tre casi appena analizzati l’iconoclastia dell’effige sacra non è, quindi, da collocarsi all’interno di un discorso di contestazione dell’immagine quale oggetto di idolatria, come, per rimanere nel mondo cristiano, accadde nell’Impero Bizantino fra VIII e I X secolo, o con a Riforma Protestante in aperta opposizione a diversi aspetti del cattolicesimo romano, o durante la rivoluzione Francese, in cui confluirono spinte alla laicità e contestazione di secolari privilegi. Si tratta, invece, di un fenomeno che vede in ogni caso sopravvivere l’immagine, la quale, sia perché le si riconosca realmente un legame con il divino, o anche il demoniaco, sia perché lo si voglia decisamente negare, viene però mutilata dello sguardo, simbolo della capacità di agire, infliggendo, di conseguenza, sofferenza ai fedeli che vedono così profanate le loro venerate immagini nei casi di Borgomaro e Pieve, o cercando di assicurare agli stessi protezione, nel caso di Tovo Faraldi.
Bibliografia
- DA Varagine, Leggenda Aurea, Firenze 1990.
- DE Moro, A. Romero, “Pancalino” e il Rinascimento in Riviera, Diano Marina 1992.
- Freedberg, Il potere delle immagini, Torino 2009.
- De Floriani, S. Manavella, Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, Cuneo 2012.
- Sista, I Guido da Ranzo, Albenga, 2014.
- Sista (a cura di), Rinascita di una pieve. Il polittico dei Santi Nazario e Celso a Borgomaro, Imperia 2019.
[1] Sulla vitalità delle immagini, sul ruolo di occhi e bocca, sulla paura delle immagini e sull’iconoclastia anche parziale Freedberg 2009, pp. 114-116; pp. 133-136; pp. 303-309; pp. 318-333, n. 13, 14 p. 361; pp. 557-619, in particolare pp. 601-609.
[2] Il discorso si potrebbe allargare anche al problematico rapporto con l’artista, sorta di altro “creatore”, di fronte al creatore divino.
[3] Da Varagine (ed. 1990), p.47, p. 540.
[4] Sista 2014, pp.80-81.
[5] Sista 2019, pp. 30-31; Manavella 2012, pp. 508-509.
[6] De Moro, Romero 1992, p. 49; pp. 117-118.
[7] Si pensi alle cosiddette immagini infamanti, ritratti di persone condannate in contumacia o ritenute in qualche modo colpevoli, le quali venivano pubblicamente “uccise” o “punite” in sostituzione degli assenti. Il fenomeno si sviluppò in particolare tra Medioevo e prima Età Moderna, ma trova riscontri anche nell’attualità. Freedberg 2009, pp. 368-389.
Fig. 1, Pieve di Teco, Madonna della Ripa, Pietro Guido da Ranzo, San Rocco, Sant’Anna Metterza, Sant’Orsola, 1535-1537.
Fig. 2, Borgomaro, chiesa dei SS. Nazario e Celso, Bottega dei Biasacci (attr.), Madonna che allatta il Bambino (part.), fine XV secolo.
Fig. 3, Tovo Faraldi, chiesa di Sant’Antonio Abate, Raffaello e Giulio De Rossi, Polittico dell’Immacolata Concezione e Santi, 1560.
Fig. 4, Tovo Faraldi, chiesa di Sant’Antonio Abate, Raffaello e Giulio De Rossi, Polittico dell’Immacolata Concezione e Santi, predella, Tentazioni di Sant’Antonio, (part.).