Giugno, nelle zone settentrionali dell’Europa, è impersonato da un contadino che falcia l’erba, mentre in quelle più a sud miete il grano[1]. Può anche essere un giovane coronato di spighe non ancora mature, accompagnato da frutti di stagione e che spesso tiene in mano una falce[2]. Al mese è associato il segno del cancro[3].
Sia per il cardinale Durand de Mende che per il Ripa l’etimologia del nome si ricollega al mondo romano per la precisione a Ovidio: “Inunius a Iuvenum nomine dictus adest”; entrambi gli autori riprendono però anche un’altra interpretazione, secondo la quale deriva invece da Giunone [4]
Nelle sequenze dedicate ai Mesi e collocate nei luoghi di culto, il ciclo del grano e quello del vino assumono, in ragione del loro evidente simbolismo eucaristico, particolare valore. Il Cristo in maestà, che sovente campeggia nelle absidi, se accompagnato dai cicli delle attività stagionali, si pone quale signore del tempo, centro generatore di un tempo ciclico che è specchio sia della realtà naturale- le stagioni- sia della realtà simbolica –le ricorrenze dell’anno liturgico-.
Sull’altare si celebra infatti il Sacrificio di Cristo in cui, secondo il dogma della transustanziazione l’ostia (realizzata con il grano) è il Corpo di Cristo ed il vino il suo sangue. Giovanni 6, 53-57: “Gesù disse: – In verità in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. (…)Questo è il pane disceso dal cielo, (…) Chi mangia questo pane vivrà in eterno”. Matteo 26, 26: “ Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo:-Prendete e mangiate; questo è il mio corpo-“.
Marco 14, 22” Mentre mangiavano prese il pane e pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: – Prendete questo è il mio corpo-“. Luca 22, 19: “Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: – Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me-“.
La mietitura, secondo la tradizione riflessa nelle norme statutarie, si doveva iniziare proprio in giugno, per la precisione il 24, giorno di San Giovanni. E proprio il Precursore è da sempre stato posto in rapporto reciproco con Cristo, così come i rispettivi cicli festivi, in entrambi i casi legati ad antichi riti agrari. Giovanni nasce durante il solstizio d’estate, Gesù durante quello invernale e, secondo l’interpretazione di Sant’Agostino, le parole del Battista, “Egli deve crescere, io diminuire” stanno a significare che, dopo la nascita dell’uno – solstizio estivo-, i giorni cominciano ad accorciarsi, mentre, dopo la venuta al mondo dell’altro – solstizio d’inverno-, prendono invece ad allungarsi. Ciò riecheggia nella tradizione dei fuochi di San Giovanni che trova le sue radici in antichi riti a sfondo agricolo cristianizzati: al declinare del sole si accendevano falò, per aiutare la natura a ripetere il suo ciclo. Inoltre la nascita di San Giovanni nel mese di giugno, sotto il segno del cancro, segno di acqua, si lega al rito acqueo del battesimo[5]. San Giovanni Battista, Cristo, il battesimo e l’Eucarestia, l’acqua e il grano da mietere: il tempo sacro e il tempo umano si fondono l’uno nell’altro.
Nella nostra diocesi il mese di Giugno si conserva ancora a Calderara, a Rezzo e a Diano Castello, a Ranzo è invece raffigurato in uno degli scomparti occultati dal pilastro. In tutti e tre i luoghi di culto si ripete la stessa iconografia: il mietitore[6]. E’ una attività convenzionale per questo periodo, ma anche nella nostra regione trova precisi riscontri nell’effettiva realtà agricola[7].
A Calderara, l’uomo, che porta avanti un duro lavoro sotto il sole, ha corti pantaloni bianchi, una casacca con gli spacchi laterali, anche questa bianca. Le vesti sono corte perché facilitano il lavoro[8]. L’abbigliamento del personaggio è completato da un cappello di paglia a larga tesa. La foggia si direbbe “moderna”, ed invece è una tipologia di copricapo molto antica; si tratta di un oggetto di lunghissimo periodo, già realizzato nella preistoria cucendo a spirale un nastrino di paglia intrecciato[9]. Gli spettatori si potevano facilmente riconoscere in tali abiti, in Liguria infatti si coltivavano lino e canapa, al fine di ricavarne fibre tessili particolarmente adatte a confezionare capi estivi[10]. Di fronte al contadino, svetta il grano alto e biondo, dietro a testimoniare il lavoro svolto, gli steli recisi a mezz’altezza[11]. Lo sfondo rosso aumenta la sensazione di calore dell’estate incipiente.
Anche a Rezzo Giugno è impersonato dal mietitore. Simili sono posa, costume, qui però ridotto ad una semplice cappa entro la quale il busto sembra scomparire. La figura è tozza, quasi priva di collo, da sotto il bellissimo cappello a larghe falde spunta un naso imponente. Il grano, di cui si legge ancora la spiga rigonfia, ha dimensioni superiori al normale. Contrariamente agli alberi, ridotti per poter essere raffigurati, il frumento, per essere visto chiaramente, viene ingigantito. Dietro questo sovvertimento delle proporzioni non si può non sentire anche la speranza di un abbondante raccolto da opporre alla fame endemica delle popolazioni rurali[12], che sognano messi straordinarie, con spighe da paese della cuccagna.
A Diano Castello[13] si riprende la medesima iconografia, senza in pratica alcuna variante. Il cappello è a tesa larga, il corpo dell’uomo è avvolto da una comoda, larga veste che ricade con profonde pieghe, il falcetto, come ogni attrezzo, è in bella evidenza. Si individua ancora, nonostante le cadute di colore, la calzatura alta sino al malleolo rappresentata con la consueta precisione. La figura è quasi avvolta dalle alte messi che la sovrastano e la circondano, sembra emergere da esse; anche in questo caso un’evocazione di prosperità. Il contadino ha, come in tutte queste rappresentazioni, un’aria serena, dalla quale non traspare alcuna fatica, riflesso di un mondo immaginario, bene augurale, idealizzato e riscattato nella fatica dalla fede.
BIBLIOGRAFIA
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Durand de Mende G. 1859, Rationale divinorum officiorum, Napoli.
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Marchini A. 2016, Il soffitto della chiesa di San Giovanni Battista, in Diano Castello. Arte, storia, cultura e tradizioni di un borgo ligure, a cura di D. Gandolfi, A. Sista, Diano Castello, pp. 229-232.
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Rossi G. 1986, Gli antichi statuti di Apricale, ediz. a cura di N. Lamboglia, Bordighera.
Šebesta G. 1996, Il lavoro dell’uomo nel ciclo dei Mesi di Torre Aquila, Provincia Autonoma di Trento, Dipartimento Cultura Servizio Beni Culturali, Castello del Buonconsiglio.
[1] Mâle 1986, p. 84.
[2] Ripa (ed. 2005), pp. 276- 277: “ Giovane, & alato come gl’altro, & vestito di verde chiaro, overo come dicono verde giallo, haverà in capo una ghirlanda di spighe di grano non mature, con la destra mano portarà per insegna il Cancer, overo Granchio, il quale sarà circondato dalle sopradette spighe, e con la sinistra una tazza, overo una bella cesta, dentro alla quale vi saranno visciole, scafe, bricocole, pere moscarole, cocuzze, citrioli, brugne, finocchio fresco, & altri frutti che sogliono essere in questo tempo.” Ripa (ed. 2005), p. 282. “ Narra Palladio lib. 7 che in questo mese si comincia a mietere l’orzo, e poi il grano onde si potrà dipingere un contadino giovane con braccia nude, & che tenghi con la destra mano una tagliente falce, con la quale tagli i covoni delle spighe di grano, le quali raccoglie con la sinistra mano: overo che mostri d’aver mietuto.”. Ripa (ed. 2005), p. 285: “ Mesi come dipinti da Eustachio filosofo Homo vestito da contadino con una ghirlanda di fiori di lino, sta in mezzo d’un campo pieno di verdure e tiene una falce fenara.”.
[3] Hall 2002, p. 143. Sull’interpretazione simbolica del cancro Durand de Mende (ed. 1859), p. 728: “ Quartum Cancer, sic dictum quia cancer est animal retrogradum, et Sol tunc retrograditur, discendens a nobis, cum prius appropinquaverit nobis. Ripa (ed . 2005 ), p. 277: “ Il segno del Granchio denota, che arrivando il Sole à questo segno, incomincia à tornare in dietro, scostandosi da noi à guisa di detto animale, il quale cammina all’indietro”. Si veda più avanti Sant’Agostino sulle parole del Battista : “Egli deve crescere, io diminuire”.
[4] Durand de Mende (ed. 1859), p. 733: “ Junius a junioribus dicitur. Erant olim majores, siclicet seniores, qui appellabantur patres, et hi in civitate semper remanebant urbis, regimini consulentes; eranta et minores, qui ibant ad pugnandum pro republica, et ideo majus a majoribus, junius a junioribus nomen accepertunt, et in illorum honorem instituiti sunt: vel dicitur a Junone. “. Ripa (ed. 2005), p. 277: “(…) alcuni lo chiamino da Giunone, latinamente Iunonium, levato due lettere di mezzo dicono Iunium”.
[5] giardelli 1991, pp. 242 – 244, Cardini 2003, pp. 135-137.
[6] Le seguenti considerazioni sono tratte da Marchini 2005-2006, pp. 85-124.
[7] La coltivazione del grano era normalmente praticata nel Ponente, ma le rese erano basse, non costanti. Si coltivavano anche avena, orzo, segale sia per integrare il frumento che per l’alimentazione degli animali. A seconda delle annate, avena e segale – meno pregiate, ma capaci di crescere anche in condizioni climatiche avverse – ponevano un parziale rimedio alle carestie. calvini 1983, pp. 97 – 98.
[8] Šebesta 1996, p. 91
[9] Šebesta 1996, p. 95.
[10] calvini 1983, p. 144 e rossi 1986, p. 162 e p. 168.
[11] La mietitura veniva svolta con la piccola falce, che spesso poteva essere dentata, da cui deriva il modo di dire “segare il grano”. Dopo il taglio gli spigolatori ricercavano le spighe disperse. Gli steli venivano recisi in alto per lasciare sia una pastura agli animali sia per concimare, sebbene modestamente, il terreno. Le stoppie potevano anche essere bruciate sempre allo scopo di fertilizzare il suolo. cherubini 1987, p. 134.
[12] de moro 1988, p. 84.
[13] Marchini 2016, pp. 229-232.