Le iconografie di Novembre sono piuttosto varie, poiché in esse si riflettono le diverse condizioni climatiche che condizionano le attività agropastorali. Il mese può essere personificato dai contadini che raccolgono legna per l’imminente inverno, dalla semina o dal guardiano dei maiali che ne sorveglia il pasto di ghiande in attesa della macellazione per le feste[1]. Può essere altresì raffigurato con la raccolta o la frangitura delle olive, ma anche con l’aratura dei campi[2].
Il suo segno zodiacale è il Sagittario; si legge anche questa volta una affinità tra segno e stagione, poiché quando il sole entra nel segno a novembre dal cielo, come saette, scendono pioggia, fulmini e grandine. Si riconduce al Sagittario anche l’abituale pratica della caccia in autunno, per la quale si utilizzano arco e frecce[3].
Il nome del mese deriva dal suo essere il nono rispetto a marzo, mese con il quale i Romani davano inizio all’anno[4].
Come per Ottobre, anche le vesti delle personificazioni di Novembre hanno i colori delle foglie autunnali: “ Giovane vestito del colore delle foglie, quando cominciano a seccarsi, & cadono da gli alberi”[5].
Se a Novembre la natura sembra entrare nel lungo letargo invernale e il suolo è gelido e spoglio, è invece proprio il mondo sotterraneo a brulicare di vita.
Al sopraggiungere del freddo l’uomo ara la terra silente per piantarvi i semi che, protetti dalla coltre della neve, germoglieranno a primavera. L’aratura ha quindi una valenza anche simbolica, quale inizio di un nuovo ciclo vitale di fine autunno, in cui si crea una comunicazione fra la superficie della terra e il sottosuolo. Da sempre l’uomo, la cui esistenza è legata ai frutti che gli consentono di vivere, ha guardato all’alternanza delle stagioni quale inevitabile legame tra la morte e la rigenerazione, come narra il suggestivo mito di Demetra e Persefone in cui, proprio la creazione di un passaggio tra il mondo sotterraneo e quello alla luce del sole garantisce alla natura la possibilità di rinascere ciclicamente.
Novembre è quindi il mese in cui ciò che si è seminato sotto la terra inizia a germogliare nascosto, in cui la morte della natura è solo apparente, in cui, arando, si apre una via tra il sepolto e l’emerso[6]. Non a caso è il mese in cui, secondo antiche tradizioni, i morti tornano a visitare i vivi[7] e in cui, proprio per questo, è stata istituita la festa cristiana della commemorazione dei defunti[8]. In autunno-inverno si aprono le porte a un contatto con l’aldilà o il sacro, e sono un aldilà e un sacro che portano doni (come dalla terra giungeranno i frutti): in Sicilia sono infatti i defunti a portare regali ai bambini, altrove, in Dicembre, Santa Lucia , San Nicola, Gesù, i Magi, la Befana[9].
Nella nostra Diocesi la personificazione del mese di Novembre si è conservata in tutti i cicli[10]. A San Giorgio di Calderara si svolge la scena dell’aratura: una coppia di buoi aggiogati traccia solchi nella fredda terra la quale si prepara a ricevere i semi che, se la Divina Provvidenza vorrà, l’anno successivo daranno i loro frutti. Lo sfondo chiaro, in cui nulla sembra comparire, fa risaltare i colori delle figure, tutte varianti del bruno: il suolo piatto, spoglio, solcato dalle linee tracciate dall’aratro, il manto dei due animali, uno chiaro ed uno scuro, il berretto[11] che scalda il capo dell’uomo, la pesante blusa che gli scende fin sulle gambe, la scarpa alta sino al malleolo, dalla punta un po’ allungata, secondo la moda dell’epoca[12]. La medesima tinta declinata in diverse tonalità accentua la sensazione di apparente morte della natura, una monotonia cromatica in cui non si avverte l’eco del sole e del calore e ricalca i dettami iconografici, secondo i quali, per i mesi autunnali, si debbono usare i colori delle foglie che cadono dagli alberi[13]
A Ranzo la scena è sostanzialmente la stessa; in primo piano l’uomo, con una pertica in mano, pungola i buoi ed ara, aprendo spessi solchi nella terra brulla. Sullo sfondo qui invece compare un paesaggio con albero e cespugli. Anche A San Pantaleo l’uomo è ben coperto ed avanza intento al suo lavoro con serenità e decisione. La scena presenta evidenti difficoltà prospettiche[14]: il vomere sembra galleggiare nello spazio tra le figure, i buoi, le cui gambe anteriori sono rigide, immobili, quasi innaturali, paiono essere in secondo piano rispetto al contadino e staccarsi dal suolo nel seguire la diagonale che traduce il loro movimento. Il “Maestro di San Pantaleo” si dimostra ancora una volta poco interessato alla mimesi del reale, ma piuttosto incline a raffigurarlo per il suo valore evocativo, a tutti immediatamente comprensibile e con i tratti di una sottile ironia.
Il “Maestro” negli stessi anni è a Rezzo, nuovamente impegnato in un Ciclo dei Mesi, ma questa volta il soggetto di Novembre è diverso. Nel Santuario resta solo il rapido tratto nero del contorno di una figurina; si notano il cappuccio, il volto teso verso l’alto, le mani. Le scarne linee della sagoma, inguainata in un abito aderente, disegnano però il corpo con straordinaria agilità, quasi un veloce schizzo di sapore curiosamente attuale. E’ il guardiano dei maiali che tiene fra le mani levate la pertica con cui percuote la quercia, ormai invisibile, e fa cadere le ghiande per l’animale, la cui massa nera in parte ancora compare ai suoi piedi. Novembre è l’ultimo dei ben quattro Mesi in cui a Rezzo compare un albero; l’originalità del ciclo del Santuario si rivela anche nell’assenza dell’aratura, oltre che nella mancanza di una esplicita citazione delle attività legate alla vinificazione.
A Diano Castello l’iconografia e l’individuazione degli ultimi Mesi dell’anno pongono alcuni problemi. Una inversione sembra già essersi verificata tra Settembre che pigia l’uva e Ottobre che nutre il maiale, ma l’anomalia pare proseguire, dato che all’immagine di un animale squartato segue la sua macellazione. Non ci resta che prendere atto di quanto si può osservare e porre la sequenza dedicata agli animali nella logica successione: nutrizione, macellazione, squartamento.
Novembre risulterebbe quindi coincidere con la macellazione, fatto piuttosto inusuale poiché è tradizione che essa avvenga per le feste di fine anno. Inoltre, se a essere ingrassati con le ghiande a Ottobre sono evidentemente dei maiali, l’animale macellato è invece chiaramente un bovino, come denunciano le corna. Anche a San Giovanni, come a Rezzo sembrano mancare l’aratura o la semina. Si deve però sottolineare come a Diano Castello il Ciclo dei Mesi sia accompagnato anche dalla serie delle tavolette dedicate ai Mestieri, tutto lascia quindi supporre che non sempre vi sia una rigida divisione fra le due sequenze, fermo restando che nel tempo ci possano essere stati spostamenti.
Resta da ricordare come, in una terra apparentemente vocata alla coltivazione dell’olivo, non ve ne sia traccia nei cicli dei mesi, sebbene sia un’attività iconograficamente usuale e compatibile con i mesi autunnali. Non ne conosciamo la ragione, da una parte è certo che nel Medioevo l’ulivicoltura nel Ponente ligure non aveva ancora raggiunto l’importanza e la diffusione dei secoli successivi, dall’altra si deve considerare l’esistenza dei repertori di bottega, basati su immagini standardizzate, proposte ai committenti che potevano semplicemente accettarle senza chiedere varianti.
Bibliografia
Cardini F. 2003, Il libro delle feste, Ventimiglia.
Durand de Mende G. 1859, Rationale divinorum officiorum, Napoli.
Giardelli P. Il cerchio del tempo. Le tradizioni popolari dei Liguri, Genova 1991.
Hall J. 2002, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano.
Ripa C. 2005, Iconologia, Milano.
[1] Hall 2002, p. 144.
[2] Ripa (ed. 2005), p. 280: “La ghirlanda di olivo è segno di questo tempo nel quale l’oliva già matura si coglie per farne l’olio, liquore utilissimo per più cose alla vita umana”. Ripa (ed. 2005), pp. 284-285: “Et perche l’olio è molto necessario all’huomo, non solo per mangiare, faremo che in questo mese, come narra Pallado lib. 12de re rustica, si faccia l’olio. Dunque dipingereno un’huomo, che tenghi con la destra mano una sferza & vada dietro a un cavallo, l quale sia attaccato ad una ruota da molino, ove si macina l’olio, & al lato di essa vi sia un monte d’olive& una pala, un torchio, fiescoli, & quanto sarà bisogno à tal’officio”. Ripa (ed. 2005), p. 286: “ Huomo, che stimola i buoi, i quali tirano uno aratro in mezzo di un campo”.
[3] Durand de Mende (ed. 1859), p. 728: “ Nonum Sagittarius, sic dictum quia venatio, quae per sagittarios, fit, plerumque tunc exercetur, vel propter fulgura, quae tunc saepe cadunt, quae Italici sagittas vocant”. Ripa (ed. 2005), pp. 279-280.
[4] Durand de Mende (ed. 1859), p. 733.
[5]Ripa (ed. 2005), p. 279.
[6] «… alla fine dell’autunno le semine e i culti legati alla terra, i culti funerari e fecondativi, segnano che il nuovo ciclo vitale ha inizio» (cardini 2003, p. 124).
[7] Per le tradizioni liguri – e non solo – relative al momento del trapasso e legate alla commemorazione dei defunti, v. giardelli 1991, p. 279 – 290.
[8] Festa cristiana che, come molte altre, trova le sue radici in tradizioni legate ciclo della natura (cardini 2003, p.131; giardelli 1991, p. 279).
[9] cardini 2003, pp. 122-123. Sulle tradizioni liguri legate a San Nicola, Santa Lucia ed anche a San Martino (11 novembre) anch’egli connesso con il mondo dei defunti, v. giardelli 1991, pp. 290 – 297.
[10] Le seguenti considerazioni sono tratte da Marchini 2005-2005, pp. 85-125.
[11] Per i cappelli invernali si realizzavano feltri comprimendo con torchi fiocchi di lana o peli di altri animali. Si faceva poi aderire il feltro ad una forma, sagomandolo nel modo desiderato. Šebesta 1996, p. 96.
[12] Essa veniva prima cucita, poi rivoltata come un guanto ed indossata. Šebesta 1996, p. 94.
[13] Ripa (ed. 2005), p. 279.
[14] Analoghe illogicità prospettiche si notano anche nella tabula di Calderara, sebbene meno accentuate. Nonostante sia passato quasi un secolo tra le due opere, tanto il soggetto quanto le incongruenze sono simili.
[Testo e foto di Anna Marchini]