La luce è sicuramente uno dei temi fondamentali della Commedia dantesca. Aspetti di luminosità non mancano neanche nell’Inferno e sono sempre più presenti ed intensi nella seconda cantica. È nel Paradiso tuttavia che la luce diventa protagonista assoluta del paesaggio celeste e dell’esperienza dantesca. In particolare, il canto XIV è stato giustamente definito il canto della luce. Siamo nel cielo di Marte, il cielo degli spiriti militanti che scorrono cantando come gemme luminose lungo i bracci di una croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
Gustave Doré anche in questa occasione traduce con la tecnica dell’incisione la potenza della poesia dantesca: l’unica licenza che si concede è nell’immaginare una croce latina, discostandosi in questo particolare dai versi danteschi che descrivono invece una croce greca. Attorno ad essa gli spiriti volteggiano luminosi: molti di loro guardano verso Gesù, colui che proprio attraverso la Croce ha portato la salvezza agli uomini.
Nella mentalità odierna la croce non è certamente associata alla luce: si tenta strenuamente di espungere il pensiero del dolore e della morte dall’esistenza quotidiana, tentando di censurare gli aspetti problematici della vita come privi di senso. Dante ci ricorda invece che la croce c’è, ma che è luminosa. E la luce deriva dalla presenza in essa di Cristo. Non siamo soli nel dolore, Cristo è davanti a noi e ci indica il cammino, come afferma lo stesso Poeta: il cristiano è proprio colui “che prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 106).
[Valeria Moirano]